Oggi incontriamo uno
dei maggior esponenti del jazz, forse il più famoso tastierista partenopeo. La
sua musica affonda le radici nella tradizione e nell’avanguardia, di cui fa il
suo vessillo. Possiamo citare Pat Metheny e Keith Jarret come suoi contemporanei
e colleghi. Alla sua ricerca musicale affianca uno studio ricercato delle
alchimie musicali, rifacendosi ad una tradizione mistica, che è giunta ai nostri
giorni attraverso la filosofia dei Rosacroce. Membro della superband composta da
Pino Daniele, Tullio De Piscopo, Rino Zurzolo, Tony Esposito e James Senese. Joe
Amoruso ne divenne “l’enfant prodige” e tramite canzoni e album tra cui
“Vai Mò” (1981), contribuì a decretarne il successo con milioni di copie
vendute.
Ciao, Joe. Puoi raccontarci del tuo percorso artistico e della tua passione per
la musica?
Ciao! Sono nato a Boscotrecase una
borgata in provincia di Napoli; a otto anni ho iniziato a suonare la musica
classica, poi fin da subito mi sono appassionato ad altri linguaggi musicali, il
jazz è stato il mio passo successivo. Negli anni ’70 non esistevano delle scuole
di jazz moderno, allora mi sono messo a ‘rubacchiare’ a destra e sinistra
cercando in giro quello che m’interessava e mi sono costruito il mio schema, il
mio linguaggio e il mio stile didattico; il modo in cui ho creato questo schema
è stato abbastanza unico e oggi che sono insegnante lo trasmetto ai miei
allievi. Ho fatto delle esperienze con musicisti e professionisti sempre più
importanti prima a livello locale, regionale, nazionale e ora internazionale. A
questa passione per il jazz si affianca, da sempre, il mio studio delle dottrine
esoteriche e delle scelte mistiche che sono molto affascinanti.
Parlaci delle dottrine
esoteriche…
Il riferimento principale è alla
dottrina e alla filosofia dei Rosacroce. Questa dottrina appartiene a una lunga
catena di pensiero che è stata tramandata da scuole filosofiche occulte e
iniziatiche fino ai nostri giorni. E’ una filosofia che ritengo più vicina al
mio modo di pensare, ai meccanismi universali dell’universo e al mio sentire il
mondo musicale. I concetti sono molto profondi, la scelta fondamentale è quella
alchemica, a questo proposito io ho scritto un libro, “Le alchimie della
musica”.
Posso dirvi che ci sono studi e percorsi filosofici che si rifanno alla casa
templare dei Rosacroce e che provengono dal pensiero degli egiziani e dei
caldei. La musica è l’ars magna e contiene tutte le chiavi filosofiche,
alchemiche e numeriche che sono alla base dell’universo, è il linguaggio più
iniziatico esistente, questo pensiero è condiviso da tutti i più grandi
filosofi.
Quali sono i tuoi musicisti preferiti da cui hai tratto la tua passione per il
jazz?
Io provo molta stima per tutti i
grandi pianisti. Keith Jarret è uno dei miei maestri ispiratori è nella mia
direzione artistica e condivido il suo mondo musicale ed espressivo; poi amo
tutta la scuola jazz raccolta sotto l’etichetta tedesca ECM, che ha scritturato
numerosi musicisti nordici e britannici come Jan Garbarek e John Surman, oltre
ad aver dato l’avvio e l’impulso alle carriere soliste di artisti post-fusion
come Pat Metheny, Bill Frisell e Keith Jarrett. Ecm ha creato un movimento jazz
sperimentale molto particolare. Amo il Jazz and Blues e mi oriento verso ciò che
sento più vicino, la cultura musicale europea.
Hai suonato con Ritchie
Havens, Don Cherry, Bob Berg, Billy Cobham, Mike Stern, Nanà Vasconcelos, Mel
Collins e moltissimi altri musicisti del jazz partenopeo, cosa puoi raccontarci
di queste esperienze?
Ho suonato con molti grandi
musicisti, ognuno di questi ha il suo mondo e mi ha trasmesso degli impulsi
musicali molto forti, oggi grazie a queste esperienze ho imparato a cogliere
l’essenziale. Sono interessato non alla tecnica e al virtuosismo, ma
all’espressione, a ciò che c’è dietro lo studio del funzionamento dello
strumento: l’energia, l’unicità e il messaggio che un autore vuole trasmettere.
Queste esperienze mi hanno portato a crescere in termini di visione della musica
e dell’arte, a uscire da quell’atteggiamento scolastico e didattico, ero pieno
di nozionismo e difatti cercavo cose stupefacenti, intese come tecnica e
virtuosismo.
Ora ho appreso che la tecnica è importante per esprimersi, ma anche che è
difficile da trovare in Italia quella capacità e velocità di sintesi americana,
il connubio tra ciò che è essenziale e ciò che non lo è. Noi europei abbiamo un
grande bagaglio culturale, ma non quella capacità di sintesi musicale.
Ci racconti un episodio che non hai mai dimenticato?
C’è un aneddoto che vorrei
raccontare, riguarda Wayne Shorter. Nel 1980 mi trovai a realizzare “Vai Mo’” il
mio primo album e mi esibivo con il pianoforte, Wayne Shorter con il sassofono
era vicino a me, lui sentiva che io tremavo dall’emozione e fu molto fraterno
nei miei confronti. Io lo dovevo accompagnare, si mise a scherzare e a ridere,
mi fece talmente rilassare che ne uscirono pezzi molto particolari; essendo
Wayne buddista prese sul pianoforte un panno bucato e mise un dito nel buco del
panno, mi mostrò un buco nella sua maglia e mi fece vedere chiaramente che
eravamo uguali io e lui e che era destino che lui fosse lì con me in quel
momento.
Che rapporto hai con la
musica leggera?
Io sono anche produttore
discografico e la musica leggera fa parte del mio lavoro, è una parte essenziale
di me che tendo a considerare come un gioco. Sono consapevole che se un’artista
ha quella quintessenza quel talento musicale li può esprimere indifferentemente,
sia in una canzoncina, sia in un pezzo sperimentale. Io penso che esisterà
sempre una differenza tra musica leggera e d’avanguardia, non si può pretendere
che la massa sia erudita e che si nutra di musica con schemi più complessi; per
me è importante arrivare anche al pubblico semplice, cerco di non essere
artefatto quando posso fare a meno della tecnica, cerco di arrivare al nocciolo
delle cose, amo la musica articolata, ma non creo nulla che possa far piacere
agli addetti ai lavori. Nella mia musica cerco di essere essenziale. Io non sono
la tradizione, per un periodo ho portato avanti il jazz classico, ma ora sono
ricercatore, non posso fermarmi. Infatti, a differenza della musica classica che
non può essere variata, quello che c’è da dire è stato già detto.
Com’è nato il sodalizio con Pino Daniele? Che cosa ha rappresentato nella tua
carriera musicale? Come pensi di proseguire?
La storia è molto lunga… Ero a
Milano avevo 18 anni e una grande occasione, fui chiamato da un’importante casa
discografica, era il 1979 mi esibivo con la Pfm e con il cantautore Alberto
Fortis, sempre più frequentemente le notizie sulle mie esperienze musicali erano
diffuse dai giornali e dalle fanzine, ero chiamato l’”enfant prodige”
napoletano, mi facevo conoscere e sentivo che a Napoli succedeva qualcosa. Pino
Daniele s’incuriosì della mia carriera a Milano, quando scesi a Napoli per una
vacanza fui chiamato da Pino. Il primo giorno che ci siamo incontrati a casa sua
mi volle sentire suonare il pianoforte e si creò un’atmosfera molto particolare.
Come succede tra artisti, o tra innamorati e così dal 1979 nacque il colpo di
fulmine. Abbiamo fatto cose importanti insieme, questo mi ha dato la possibilità
di crescere, prima di noi nessuno aveva avuto la possibilità di suonare jazz
napoletano in questo modo ed io realizzai numerosi arrangiamenti. Così qualche
anno dopo nacquero la superband e il “neapolitan power” questa era una vera
scuola napoletana di jazz, che purtroppo si sta disperdendo. In seguito ognuno
ha preso la sua strada, con tutto l’affetto che io nutro per i membri del
supergruppo, ho preso atto che ognuno ha scelto la sua strada.
Vorresti ripetere
quest’esperienza?
Mi farebbe piacere che ci
trovassimo tutti insieme. So che non è facile, perché ognuno ha il suo percorso,
ora ci sentiamo io, Tony Esposito e Rino Zurzolo, che siamo coetanei. Il
supergruppo ogni tanto si riunisce per delle grandi ospitate, ma non c’è più
quella grande sintonia d’intenti e di percorso. Purtroppo alcuni del gruppo non
sono più disponibili mentalmente, non ci credono più.
L’impegno nel sociale che ci ha caratterizzato, ci ha permesso di trasmettere
tutta una serie di esperienze nel mondo del jazz. E’ molto importante tutto ciò
che ne è nato e sarebbe un peccato lasciarlo morire; il “neapolitan power” è
stata l’espressione di un popolo, di una cultura, di una terra, un’educazione al
sociale.
A quale brano musicale sei
fortemente legato? Per quale motivo?
Non esiste una sola canzone, forse
la musica di Stewie Wonder, che amo. Le mie preferenze musicali si sono
modificate molto secondo le fasi della mia vita.
Che cosa ne pensi di questa società?
Sono convinto che siamo all’apice
di un ciclo, non mi piace quello che sta succedendo, non è nulla di bello,
guerre, tragedie e infinite miserie, spero in un periodo nuovo. Un futuro
migliore.
Che progetti hai per il futuro?
Sto portando avanti un
progetto musicale insieme con Antonio Onorato; chitarrista napoletano di fama
internazionale, ha collaborato con musicisti del calibro di Pat Metheny, George
Benson, Noa, Pino Daniele, Toninho Horta, Enzo Gragnaniello, James Senese.
Il progetto è di recupero, mediante un nuovo concetto d’improvvisazione, della
tradizione musicale mediterranea e partenopea.
Joe, il nostro è stato davvero un bellissimo incontro e ciò che mi ha
particolarmente affascinato è stato questo nostro dialogare, come se ci
conoscessimo da una vita. A nome mio e di tutta la redazione, grazie per averci
concesso quest’intervista e in bocca al lupo per i tuoi progetti futuri.
Grazie a te e un caro saluto alla
redazione Il Settimo Senso news.