Com’è nata l’idea di scrivere la “Racaille”?
Dopo le rivolte nelle banlieues del 2005/2006 ho scritto degli articoli, interloquendo con i giovani di Rifondazione Comunista di allora, ma anche seguendo le discussioni dei giovani dei centri sociali. Sembrava che i giovani di sinistra dovessero sostanzialmente dividersi tra coloro che si interrogavano sullo “sbocco politico”, di quelle rivolte, e chi subivano il fascino dei banlieusards, in qualche sorta di “mitizzazione”. Ma soprattutto mi colpiva la lettura generalizzata dei giornali e della politica, che assegnavano a quei moti un’origine etnica. Ancora oggi il senso comune ritiene che i protagonisti di quelle rivolte fossero i giovani figli di immigrati di seconda/terza generazioni e la ragione derivi da una non riconosciuta piena cittadinanza. Il mio libro sostiene nettamente un’altra tesi e cioè che i giovani delle periferie popolari francesi, come qualche anno dopo i greci, si ribellano a un destino di disoccupazione e precarietà e che le contraddizioni legate alle origini familiari semmai si sovrappongono e si intrecciano alla condizione sociale. I giovani subiscono oggi una sorta di ingiustizia generazionale e generalizzata e, in particolare verso i meno abbienti, si riversa una stigmatizzazione sociale, politica e culturale insopportabile. Non solo lo dimostro con studi e testimonianze dirette, ma mi sembra chiaro che la condizione di precarietà, nel lavoro e nella vita, dei giovani in Europa è diventata l’emergenza prima.
La nascita di una nuova schiavitù è un problema centrale nel suo libro, a cosa potrebbe portare nei prossimi anni in Italia?
Nessuno qualche anno fa avrebbe potuto immaginare che l’Europa sarebbe tornata a questi livelli. Le tante forme di schiavitù che stanno emergendo sono infatti il risultato delle politiche di questi anni, in cui a dettare legge è sempre e solo il mercato, il profitto. A questo si sacrificano diritti fondamentali, che erano propri dello stato sociale universale e che costituiscono la storia del modello europeo; si modifica progressivamente e radicalmente, il rapporto di lavoro, che viene spinto in una direzione sempre più individuale, oltre che precario e si sperimentano nuove forme di autoritarismo. La stessa questione dell’immigrazione, che è un fenomeno irreversibile per diverse ragioni, viene gestita sfruttando la debolezza contrattuale di chi arriva a cercare lavoro. Le imprese delocalizzano la produzione, alla ricerca di una manodopera che costi sempre meno e si approfitta dell’offerta di manodopera straniera, per abbattere i costi del lavoro e abbassare i diritti dei nativi. Le stesse frontiere vengono gestite a seconda dei bisogni del mercato. La nuova schiavitù non è un incidente di percorso, purtroppo, ma una delle tante forme di sfruttamento della cosiddetta società moderna.
Questo modello liberale per funzionare esclude gli estranei da quello che potrebbe distribuire, alimenta la xenofobia, rompe la solidarietà e afferma la legge del più forte, cosa ne pensa?
Più che liberale, lo definirei liberista ed è un modello che si regge proprio alimentando le contrapposizioni, le divisioni, le competizioni. Quando poi, in una società già frammentata, si aggiunge una crisi economica come quella che viviamo è facile scatenare la classica guerra tra i poveri. Gli immigrati diventano le vittime privilegiate, ma se sei alla ricerca di un nemico, anche il vicino di casa prima, o poi, lo può diventare.
Dal suo libro emerge il problema dell’identità degli stranieri, quali potrebbero essere delle strategie efficaci d’inserimento sociale e culturale dell’immigrato in Italia?
Nel libro affronto il concetto di identità in senso molto critico, evidenziando come questo presupponga risposte molto diverse, e come questa non possa mai essere definita una volta per sempre. Utilizzo la Francia anche per sottolineare come la stessa identità nazionale abbia subìto valori connotazioni differenti nel corso della storia.
Non vi è dubbio, inoltre, che spesso sentiamo fare un uso strumentale della questione dell’identità. Per questo riprendo il concetto di boundary di F. Barth, declinato dall’antropologa Sandra Wallman, laddove ella considera l’identità come una bustina di tè, e le foglie di tè contenute rappresentano gli individui racchiusi dal gruppo delimitato. Dato che il contenuto della busta risulta solubile e l’involucro permeabile, ciò comporta, continuando col paragone, che anche gli individui possono avere delle opzioni di scelta e decidere di fuoriuscire o meno dal gruppo di appartenenza …
Come mai in Europa è così difficile l’accettazione e l’inserimento degli stranieri?
Ci sono esperienze straordinarie dal punto di vista della solidarietà, dell’accoglienza, della mixitè. In Italia come in altri paesi europei. Ma proprio la storia europea e la stessa storia dei nostri nonni, che invece emigravano in altri continenti, dimostrano la ricerca del nemico, che è legato sempre a situazioni e contesti particolari, ferme restando le dinamiche di difesa del gruppo, che tra gli esseri umani sono facilmente risolvibili.
Quello che è inconcepibile, invece, è l’uso politico delle paure, o dei bisogni per trasformarli in voti, in consensi personali ..
Non penso, com’ è stato scritto su diversi giornali stranieri, che gli italiani siano diventati razzisti, ma certo è che se le cariche istituzionali più importanti si scatenano nella caccia allo straniero, o dichiarazioni xenofobe, si seminano disvalori, si fa emergere il peggio di ognuno e si legittimano comportamenti vergognosi.
In ogni caso, nelle politiche concrete, nelle legislazioni di tutta Europa, c’è sempre una logica mercantile alla base della scelta di negare una piena cittadinanza agli stranieri, negare il diritto di voto, ecc..
Disoccupazione, precariato e discriminazione potrebbero essere dei binari paralleli che portano ad una mancanza di valori e di certezze nella nostra società?
Credo sia urgente sconfiggere ed invertire la filosofia che ha guidato le scelte di questi anni e che, non a caso, sono la causa stessa della crisi economico-finanziaria mondiale e cioè la politica dei bassi salari e dello sfruttamento. Bisogna invece dar luogo, in Europa, a un grande processo di ricomposizione del mondo del lavoro, che rimetta al centro i diritti, coniugando gli stessi, rispetto alle nuove esigenze dei suoi protagonisti, in particolare i giovani. Il problema di fondo è quello di soddisfare bisogni materiali e nuovi saperi, con la finalità ultima di garantire un’autonomia economica e di espressione, di creatività. La possibilità di mettere in campo la ricerca e nuove tecnologie deve essere usata per liberare gli uomini e le donne dalle fatiche più dure e vergognose, perché ognuno possa mettere a disposizione il proprio lavoro per il benessere collettivo. Certo, se ci si guarda intorno sembra impossibile, ma in altre fasi della storia abbiamo assistito a grandi momenti e movimenti, di liberazione collettiva, che hanno cambiato la quotidianità delle persone. Poi queste istanze hanno perso le sinistre, tutte. Ma nella vita bisogna sempre cercare, provare e riprovare… e rinnovare continuamente un punto di vista critico. Per questo le giovani generazioni rappresentano, o possono rappresentare, il futuro di tutti e tutte.
In che cosa è consistito il suo lavoro come membro del Comitato parlamentare d’indagine sul G8?
Purtroppo era solo un lavoro di indagine, con pochi poteri. La commissione di inchiesta ci è sempre stata negata in Parlamento. Questo ha impedito che i parlamentari potessero indagare veramente, leggere le carte, interrogare i responsabili delle forze dell’ordine che sono responsabili di quanto è avvenuto a Genova nel 2001. Il governo Berlusconi, e i governi in generale, quelli, appunto del G8 avevano deciso in quegli anni di farla finita con quel movimento che contestava le scelte dei “grandi della terra”, sia sul terreno delle politiche economiche, dell’ambiente, dei diritti umani, come sul terreno della democrazia. Quel movimento denunciava ingiustizie e nuove forme di autoritarismo e faceva proposte alternative. Per questo dava fastidio e hanno deciso di usare le maniere forti. Con i pochi mezzi a disposizione del comitato di indagine, è stato possibile però, da parte mia, leggere carte, collegare i fili, sentire testimonianze. Anche perché a Genova io c’ero e sono stata in tutti i luoghi in cui abbiamo subìto violenze e abusi: dalle manifestazioni di piazza, alla scuola Diaz. E’ stato un lavoro che mi ha consentito di stendere una relazione di minoranza in parlamento ed anche offrire contributi e testimonianze ai giudici di Genova che hanno indagato.
Che cosa ha scoperto che l’ha maggiormente impressionata?
Che effettivamente quanto è successo è stato frutto di scelte, di riunioni, di responsabilità di uomini che dovrebbero essere i garanti della Costituzione e dei diritti dei cittadini. Non ci sono stati solo gli errori, che possono avvenire, per quanto tragicamente, in situazioni come quelle. La verità è che le nostre forze dell’ordine hanno un alto livello di professionalità, come altre esperienze, anche immediatamente successive, come a Firenze nel 2002, dimostrano. Se a Genova è morto un ragazzo e tanti altri portano con sé ferite nel corpo e nell’anima difficilmente rimarginabili, questo è un problema per le istituzioni repubblicane, per la credibilità di coloro che indossano le divise. I ragazzi che sono stati a Genova nel luglio 2001 difficilmente possono avere un rapporto di fiducia con le istituzioni e i loro rappresentanti. E’ stato difficile, per me che avevo vissuto in diretta le dolorose esperienze di Genova, interrogare i capi della polizia, dei carabinieri, ecc., nel corso dei lavori del comitato di indagine. Era difficile reprimere la rabbia che tornava al ricordo di quei tragici avvenimenti. Ma è stato ancora più doloroso sentire uomini in divisa che dicevano bugie, che si contraddiceva l’uno con l’altro. E poi seguire negli anni successivi la loro carriera, che comunque non è stata bloccata.
Che cosa ne pensa dell’ultima sentenza che vede De Gennaro condannato?
De Gennaro ha grandi responsabilità, perché era il Capo della Polizia, allora. E ha diretto e coordinato in prima persona tutti gli incontri internazionali che hanno preceduto Genova. Ma non ha avuto neanche un richiamo, anzi. La sua carriera è proseguita, con responsabilità sempre più importanti. A volte, una sentenza di un tribunale può rappresentare un risarcimento morale.
Quale potrebbe essere la condanna migliore affinché i ragazzi della Diaz abbiano giustizia?
Verità e giustizia. Non a caso il comitato Verità e Giustizia non si è mai sciolto e continua a seguire l’iter dei processi, anche se l’opinione pubblica ha rimosso quella vicenda, e i giovani di oggi non la conoscono. Poi ci sono altre vittime: 25 ragazzi accusati di devastazione e saccheggio, alcuni di loro condannati. E ci sono dei giovani avvocati che li hanno seguiti, e li seguono, in questi processi, a cui vanno i ringraziamenti di tutti coloro a cui sta a cuore la verità e la giustizia.
Pensa che torneremo a vederla come rappresentante della rinata Rifondazione Comunista?
La Rifondazione Comunista di quei tempi, quella che era diventata interlocutori alla parti del movimento altermondialista non c’è più. Non basta tenere un nome e un simbolo per parlare quel linguaggio, che era un linguaggio di apertura e di ricerca continua. C’è invece una sinistra sconfitta, che ha bisogno di studiare, di interrogarsi, e anche di trasmettere le proprie conoscenze ed esperienze alle nuove generazioni, perché siano i nuovi protagonisti della politica. Per questo, con altri amici/amiche e compagni/compagne abbiamo organizzato una scuola, facciamo dei corsi. La nostra mission è esattamente quella di contribuire a sviluppare un punto di vista critico. Ci sono mille modi per esprimere un impegno politico. Per quanto mi riguarda, per ora, la militanza in un partito si è conclusa.
Lei è una donna molto impegnata politicamente e intellettualmente, ma come passa il tempo libero?
Faccio parte di una generazione in cui il lavoro, che per me è stato in una grande azienda milanese, era un tutt’uno con il resto della vita: l’impegno sindacale, l’impegno politico, gli affetti, le figlie. Ho avuto la fortuna di vivere anni molto intensi, di fare conoscenze straordinarie nel mondo. Non mi sono mai posta la questione del “tempo libero”. Oggi è diverso, perché la maggior parte dei giovani fanno lavori alienanti e frustranti, che servono solo per avere qualche soldo da spendere nella parte di vita che interessa loro.
In ogni caso la mia passione è la lettura e la scrittura. Leggere e scrivere rappresentano per me il modo per stare bene, per rilassarsi e rigenerarsi. Poi vado in palestra, mi piace molto il mare, il sole. Ecco: leggere in spiaggia è il massimo della vita. Magari anche seguendo le partite di calcio. Sono un’interista sfegatata..
La sua vita è intensa e piena d’interessi e di passioni, ma c’è qualcosa che avrebbe voluto fare e non le è riuscito?
Certo. Ce ne sono tante. Ma in particolare tre: ballare, che mi piace molto, ma che necessariamente nel corso degli anni ho sacrificato; studiare il tedesco e l’arabo. Ma queste ultime due cose conto di farle appena avrò l’età della pensione..
La ringrazio per avermi concesso quest’intervista…
Grazie a lei!