PIANISSIMO (racconto di Angelo Ariemma)

La sonata Hammerklavier di Beethoven risuonava nella grande sala dell’auditorium colmo di appassionati, appassionati di musica, appassionati di Beethoven, appassionati di Fulvio Trani. Al centro della sesta fila anche Michele ascoltava assorto quel primo movimento allegro, seguiva lo scorrere veloce delle mani del solista sulla tastiera bianca e nera. Pensava a quando anche lui, bimbo di sei anni, si cimentava su quella tastiera con i primi solfeggi che suo padre gli insegnava, a quando, in silenzio, ascoltava il papà fare lezione ai suoi giovani allievi, a quanto fosse affascinato da quel bambino, poco più grande di lui, che, molto serio e concentrato, era già capace di far emergere da quegli strani tasti qualche aria bachiana. E divennero amici.

Una pausa, qualche colpo di tosse risuonò nella sala, quasi a prevenire, ora, una possibilità che dopo avrebbe arrecato disturbo agli ascoltatori, e riprese quella lotta col suono che caratterizza il breve scherzo della Sonata op. 106. Con la stessa rapidità Michele ricordò il veloce trascorrere del tempo, diventare da fanciullo ragazzo. Ormai i suoi giocattoli restavano riposti nelle vecchie scatole, ma non si perdeva l’amicizia con Fulvio, che continuava nella scuola, e continuava nel Conservatorio, dove entrambi si cimentavano nello studio del pianoforte, e dove Fulvio suscitava l’ammirazione di tutti gli insegnanti e i compagni, mentre Michele arrancava con la solita difficoltà a dominare quello strumento tanto severo.

E così scorse veloce questa breve stagione, come rapidamente si concluse lo scherzo in un crescendo improvvisamente interrotto, per dare luogo all’adagio, mesto e pensoso poema del dolore, che lento si dipanava e avvolgeva la sala nelle spire di un’armonia calma e sofferente, che trasportò Michele a quella grigia mattina quando, accanto alla madre piangente, diede l’ultimo saluto a suo padre. In quel loculo Michele chiuse anche la sua infanzia. Interruppe lo studio del pianoforte. Perse così di vista Fulvio, che ora dava il meglio di sé, nel dosare nel lungo flusso sonoro dell’adagio le pause, i brevi silenzi, le riprese del suono dolente.

Michele rivide il giorno in cui incontrò di nuovo Fulvio. Era il suo debutto: successo, applausi, camerino pieno delle persone più care; tra queste venne accolto anche lui.

L’adagio si avviava alla conclusione, lento, mesto, profondo. Ancora una breve pausa e Fulvio attaccò la grande fuga, maestoso episodio contrappuntistico che apre alla musica moderna.

I due amici avevano ripreso a frequentarsi, e con loro Irina, la ragazza di Fulvio, una giovane russa venuta in Italia a studiare canto, alta, slanciata, dai capelli ramati, lunghi sulle spalle, le gambe esili sui tacchi alti, parlava col suo accento straniero, fascinoso e dolce.

Gli episodi della fuga si susseguivano in un ritmo incessante, in un profluvio di suoni che si rincorrevano e davano il senso dell’energia vitale che progredisce e si afferma.

Michele e Irina divennero amici e si incontravano anche quando Fulvio era assente, impegnato nelle sue tournée.

La musica di Beethoven stava riempiendo il cuore di Michele di gioia e tormento, sentiva la lotta col suono che quella musica esprimeva, sentiva la lotta con la vita che lui aveva affrontato.

Una sera si amarono, ma Fulvio, ritornato inaspettatamente, li scoprì, insieme, nudi, nel suo letto. Non si videro più.

Il lungo accordo che conclude la Sonata Hammerklavier si prolungava più del solito, a ricordare a Michele i tanti anni trascorsi. Poi silenzio, e subito lo scosciare dell’applauso del pubblico entusiasta, che si alzò in piedi ad acclamare il famoso pianista; Fulvio sul palco salutava e ringraziava inchinandosi e poi ravviandosi i lunghi capelli.

“Solo colui che sarà capace di trasformarsi possiederà la chiave dell’enigma del mondo”. Questa frase, letta non ricordava dove, gli martellava nella testa (mentre anche lui in piedi applaudiva calorosamente il suo amico) e lo spingeva ad andare sotto il palco per vederlo, per salutarlo, finalmente, eppure un bruciore nello stomaco continuava a tormentarlo.

 

Angelo Ariemma