Al Teatro Quirino
31 ottobre . 5 novembre
Rocco Papaleo è protagonista de “L’ispettore generale” di Nikolaj Gogol, uno dei più grandi capolavori della drammaturgia russa. Scritta nel 1836, ma tragicamente più attuale di quanto si possa immaginare, rivive oggi grazie alla regia di Leo Muscato.
L’ispettore generale è una commedia satirica estremamente divertente che si prende gioco delle piccolezze morali di chi detiene un potere e si ritiene intoccabile. È forse l’opera più analizzata, criticata, incompresa, difesa, osteggiata, della letteratura russa di tutti i tempi. Gogol stesso si sentì in obbligo di scrivere diversi testi che fugassero i fraintendimenti sorti al suo debutto. Non era la prima volta che sulle scene russe venivano rappresentati gli abusi quotidiani dei burocrati statali. Ma tutti i testi precedenti erano basati sulla contrapposizione fra il bene e il male, con personaggi positivi e negativi. Ne “L’ispettore generale”, invece, per la prima volta, i personaggi sembravano essere tutti negativi, e per gli spettatori dell’epoca, questo era inconcepibile. Persino il finale appariva eccessivamente ambiguo, sia perché sulla scena non veniva esplicitato il trionfo della giustizia e la punizione dei corrotti, sia perché non era esplicitato se il vero ispettore generale annunciato nell’ultima scena, avrebbe fatto giustizia o si sarebbe comportato come il falso revisore.
L’opera è un’espressione emblematica del teatro gogoliano e del suo tentativo di denunciare, attraverso riso e comicità la burocrazia corrotta della Russia zarista. Siamo in un mondo in cui l’ingiustizia e il sopruso dominano l’esistenza. Ma non è l’uomo a essere malvagio; è la società che lo rende corrotto e corruttore, approfittatore, sfruttatore, imbroglione.
Molti spettatori videro il testo come una minaccia all’ordine costituito: gli abusi dei funzionari non potevano costituire il soggetto di una commedia naturalistica, perché di certo trattavano casi particolari. Secondo quegli spettatori le opere incentrate solo sugli aspetti negativi della realtà potevano avere esclusivamente il carattere della farsa alla stregua del vaudeville.
In realtà, il testo di Gogol è molto più metaforico che naturalistico.
La cittadina in cui è ambientata l’azione non rappresenta una concreta località russa, ma un piccolo mondo sociale integro e autosufficiente, un microcosmo autonomo, perfettamente isolato nel quale l’autore fa confluire tutto il male osservato in Russia.
Questo nuovo allestimento de “L’ispettore generale” prende spunto proprio da questo isolamento, da questo essere in un altrove, lontano dai confini dell’impero, e forse da tutto il resto del mondo. L’opera è ambientata in un territorio ostile e difficilmente raggiungibile, come potrebbe essere la Siberia in pieno inverno. Neve, freddo e ghiaccio dominano lo sfondo visivo di una minuscola cittadina, in cui ogni abitante conosce vita morte e miracoli di tutti gli altri. È un mondo in cui vige la povertà, l’ignoranza e l’apoteosi del provincialismo; un luogo in cui anche i “potenti” vivono in ristrettezza, ma la posizione che occupano, consente loro di approfittarsi di chi sta ancora peggio. Tutti sognano la Capitale, immaginano che lì si possa vivere solo una vita felice e piena di lussi. Ma questa prospettiva è solo una chimera di chi ha un’esperienza di vita molto limitata e vive con molta ingenuità.
La comicità de L’Ispettore generale, nasce dal fatto che i personaggi vivono la truffa, l’arbitrio, la violenza e la sopraffazione come loro sacrosanti diritti. E all’improvviso subiscono una scossa talmente tanto forte che comincia a instillare dentro di loro il dubbio di non avere più alcuna certezza: non si tratta di una baruffa o di una lite familiare, ma di un formicaio messo in allarme nei suoi capisaldi più profondi. La paura, il senso di colpa, e il vizio della corruzione, rende tutti i personaggi completamente ciechi, trasformandoli da carnefici a vittime, e le loro reazioni diventano per noi oggetto di risa e derisione, perché, come scriveva Rabelais, “meglio è di risa che di pianto scrivere, che rider soprattutto è cosa umana.”
Personaggi e interpreti
PODESTÀ Rocco Papaleo
CHLESTAKOV Daniele Marmi
OSIP Giulio Baraldi
MOGLIE Marta Dalla Via
FIGLIA Letizia Bravi
GIUDICE Marco Gobetti
SOVRINTENDENTE OPERE PIE Gennaro Di Biase
DOBČINSKIJ Michele Schiano di Cola
BOBČINSKIJ Michele Cipriani
DIRETTORE SCOLASTICO Marco Vergani
SOVRINTENDENTE OPERE PIE Gennaro Di Biase
UFFICIALE POSTALE Marco Brinzi
DOTTORESSA, VEDOVA, CAMERIERA Elena Aimone
ATTENDENTE, MERCANTE Salvatore Cutrì
Musiche
originale Andrea Chenna
scene
Andrea Belli
costumi Margherita Baldoni
luci Alessandro Verazzi
coreografia Nicole Kehrberger
APPUNTI PER UNA MESSA IN SCENA
di Leo Muscato
1836, Regno dello zar Nicola I.
Per controllare la vita e l’operato dei suoi sudditi, lo zar istituisce un nuovo organo di Stato chiamato Terza Sezione. È una sorta di inquisizione che persegue e ostacola tutti i liberi pensatori, fra cui Dostoevskij, Puškin e Gogol stesso.
In breve tempo questo sistema scatena un processo di burocratizzazione della macchina amministrativa ed aumenta esponenzialmente il livello di corruzione fra i funzionari statali.
Al suo debutto, L’ispettore generale procurò un vero e proprio terremoto tra la borghesia pietroburghese: si trattava di una satira grottesca i cui protagonisti erano proprio quei burocrati statali che agivano con troppa libertà nei palazzi dell’Impero.
Nella commedia di Gogol, quell’élite di Pietroburgo diventa un manipolo di improbabili funzionari di provincia, traffichini che si sentono intoccabili. Su tutti, spicca il Podestà che gestisce la “cosa pubblica” come fosse il proprio feudo e arrotonda con leggerezza lo stipendio statale, che a suo dire “è una miseria”. Ma la corruzione serpeggia in ogni settore della macchina amministrativa.
Per aggirare la censura, Gogol ambienta la sua storia in una piccola cittadina sperduta, dalla quale si potevano raggiungere i confini dell’Impero solo “cavalcando senza sosta per tre anni”.
Questa cittadina senza nome, più che un luogo fisico, ci è parso uno spazio mentale. Con lo scenografo Andrea Belli, abbiamo immaginato un luogo straniante, metafisico: un piccolo villaggio, freddo, innevato, glaciale, con case cristallizzate dal ghiaccio e una parete girevole per evocare spazi diversi. I costumi ideati da Margherita Baldoni, ci ricordano di continuo che siamo un territorio dalle temperature polari, in un’epoca in cui cappotti e pellicce erano strumenti ed indumenti preziosi, quanto fondamentali, per preservarsi dal gelo.
La trama, di per sé, è molto esile e si basa su un equivoco banale: un frivolo viaggiatore di passaggio viene scambiato per un alto funzionario dello Stato spedito dallo zar ad indagare sulla condotta dei funzionari cittadini. Il malinteso scatena conseguenze nefaste per i “notabili” del villaggio che si troveranno a vivere il giorno più lungo e tragico della propria esistenza, col timore di venire smascherati e di finire ai lavori forzati.
Eppure, non sarebbe così arduo capire che quel ragazzino viziato, piombato in città da chissà dove non può essere il funzionario che credono.
Insomma, per non soccombere è necessario trovare il modo di corromperlo. Tutti sono pronti a rimetterci i risparmi di una vita, pur di farla franca. Ma se non fosse così facile? L’ironia sottesa in tutto il testo è contrappuntata dalle musiche originali di Andrea Chenna, che evocano un tempo che non c’è più.
Di tanto in tanto, la trama farsesca di Gogol si tinge di coloriture metafisiche che lasciano intravedere la natura tragica della sua visione del mondo.
Il testo è qui presentato in una versione ridotta a un solo tempo.
Sul linguaggio abbiamo operato con estrema prudenza, asciugandolo da un eccesso di riferimenti storicizzanti che oggi renderebbero appesantita la sua fruizione. Molti personaggi di contorno sono stato tagliati; quelli rimasti conferiscono alla vicenda una dimensione ancora più corale, arrivando a incarnare delle maschere continuamente in bilico fra il serio e il faceto, fra la tragica situazione in cui credono di essere e la comica situazione in cui realmente si trovano.
E noi un po’ li compatiamo e un po’ ridiamo di loro, perché, come scriveva Rabelais,
“meglio è di risa che di pianto scrivere, che rider soprattutto è cosa umana.”